Si, buongiorno a tutte e tutti intanto, e ringrazio moltissimo le organizzatrici e gli organizzatori per l'invito e per appunto aver organizzato questo convegno. Come dire, io non sono né prettamente epidemiologa né un'esperta prettamente diciamo del campo della salute, ma penso che il mio intervento sarà abbastanza in linea anche con quello che è stato appena detto.
Io sono una ricercatrice, mi occupo di ecologia politica e in questi mesi pandemici insieme a una vasta rete di attivisti, esperti, accademici (non solo italiani) abbiamo comunque in qualche modo contribuito ad alimentare una lettura che oramai è abbastanza diffusa e che inserisce questa pandemia e le crisi che ha generato all'interno di quel percorso e di quei ragionamenti che già avevano letto la crisi climatica e la crisi ecologica come prodotta e interna al capitalismo; mostrando quindi da un lato l'urgenza di un superamento del capitalismo stesso, ma anche l'urgenza di una comprensione del capitalismo in chiave socio-ecologica; quindi come un processo di alterazione costante dei ritmi di vita e delle forme della riproduzione e della sottomissione di queste forme alla logica della crescita, la logica del valore.
Quindi da questa discussione è derivata soprattutto l'idea che la sfera della produzione della vita umana, delle specie, degli animali, delle piante, degli ecosistemi in generale sia sottoposta alla logica della produzione oggi in una maniera così profonda che il capitalismo stesso in qualche modo si è trasformato in una crisi ecologica, climatica e sanitaria di portata globale. Quindi non è tanto l'idea di un capitalismo in crisi, ma di un capitalismo
come crisi. Ed è interessante notare che questo non è più un tabù per nessuno, non è un non detto perché - lo diceva molto bene in realtà anche appena adesso Ernesto Burgio, ma giusto per citare diciamo fonti più mainstream - leggevo proprio nel rapporto della piattaforma intergovernamentale sulla biodiversità che è un'organizzazione voluta dalle Nazioni Unite e che [un po' come il panel sul climate change ha quel tipo di ruolo di coordinamento del dibattito] ha dichiarato nel suo ultimo report che l'umanità (c'è sempre questa retorica del tutti sullo stesso piano) è ufficialmente entrata nell'era delle pandemie. Questo punto lo spiegava bene l'intervento precedente, non perché improvvisamente i virus [abbiano] deciso di fare la guerra alla specie umana, ma perché gli umani (o perlomeno una parte di loro) ha dichiarato guerra al vivente per lo meno da due secoli, cioè con il capitalismo industriale. Ma in maniera più generale, se vogliamo seguire l'ipotesi del capitalocene, possiamo rintracciare questo processo all'inizio della trasformazione coloniale e della specifica organizzazione del rapporto società-natura che ha messo in campo questo processo. E che si traduce oggi, appunto, in questa distruzione generalizzata degli ecosistemi, della deforestazione e in tutti i fattori che causano questi pandemie; che, come è stato detto, sono delle zoonosi principalmente legate alle attività industriali e agroindustriali. E questo mi sembra un punto interessante e che va sottolineato perché è rilevante anche indipendentemente dal fatto che questo virus sia effettivamente un virus prodottosi in natura o come alcuni dicono (non è la mia posizione, ma io non sono assolutamente in grado di valutare la questione) da un laboratorio. Ma comunque anche se fosse un virus scappato da un laboratorio, credo che se si studiano questi virus, sia all'interno di questo quadro di crisi. Quindi anche questa seconda teoria non inficia questo tipo di analisi.
E l'altro elemento che è emerso, appunto, è l'idea di questa sindemia che ci rimanda sempre a questo elemento situato e sociale della questione pandemica. Ricordandoci appunto che le cause principali di co-mortalità sono legate ad alterazioni croniche del metabolismo: cioè, ancora una volta, delle forme della riproduzione sociale, delle forme metaboliche in questo caso del metabolismo umano e legate appunto ai modi di vita, agli stili alimentari delle società industriali e postindustriali. Queste malattie hanno una diffusione diversa anche in base però alle geografie della povertà, dell'accesso alla cura e al cibo di qualità; e quindi aggravano e mettono in campo oggi delle nuove forme, le nuove forme che prende il ricatto salute-lavoro a cui molte persone sono sottoposte e lo sono oggi in maniera ancora più diffusa. Questo ricatto contraddistingue la contraddizione insanabile tra tutela della salute e diritto al reddito, così come è organizzato nella società capitalista dove il reddito è sempre sottomesso alla produttività, ma dove non tutto è considerato come avente valore e come produttivo. Quindi ricollocare la questione pandemica dentro un'analisi socio-ecologica dell'evoluzione capitalista credo sia rilevante non solamente per, come è stato detto, andare in qualche modo a sottolineare la logica che ha prodotto questa pandemia e il fatto appunto che "ritorno alla normalità" significa ritornare alle condizioni che l'hanno causata; ma anche perché questo ci permette di sottolineare come le modalità con cui si sta gestendo il problema non si distanzino bensì confermino la logica che sottende e che ha già sotteso la gestione della crisi climatica. Cioè inserisce questa ulteriore crisi in quel processo di ristrutturazione del capitalismo sotto il segno del neoliberismo che è in corso già da tempo e che io avevo provato in alcuni interventi precedenti a definire come capitalismo del rischio - cioè l'idea che il rischio e la sua incidenza stiano subendo un processo di naturalizzazione, che assume come data la totale contingenza e sperimentabilità dell'esistenza. Cioè l'idea che se la vita su questo pianeta è un sistema aperto in continua espansione (proprio come ci raccontano sia il capitalismo) allora in qualche modo i limiti della prima ed i limiti della seconda non solo non sono dati: ma non sono neanche un problema perché possono co-evolvere. Quindi dissesti ecologici e sociali a cui siamo confrontati non sono sufficienti, di per sé, a mettere in questione il sistema - anzi lo chiamano ad evolversi, ovviamente preservando la logica di fondo. Questo elemento secondo me è un tema centrale, almeno è quello che vorrei provare a mettere a dibattito nel mio contributo di oggi, perché è collegato alla questione del dibattito sui vaccini. Nel senso che la soluzione del vaccino avviene in assenza di un reale dibattito allargato, diffuso, istituzionale - su appunto le cause da un lato, ma anche le forme di adattamento che ci vengono e ci verranno richieste su più livelli.
Pensiamo a come è già cambiato il diritto sul lavoro, a come sta cambiando la gestione dello spazio pubblico e, come abbiamo visto oggi, a come sia anche modificata la questione della salute e della sanità. Questa assenza di dibattito diciamo sulle origini e sulle forme di adattamento, secondo me non può essere letta solo come un tentativo di occultare o di non andare a cercare le responsabilità, di non puntare il dito appunto contro la bio-industria e contro il dissesto ecologico. Suggerisce anche un altro meccanismo un po più perverso, cioè l'idea che se ogni crisi è naturalizzata - cioè se le crisi sono naturali anche quando sono sociali, perché è così che va il mondo e perché non c'è differenza tra il mondo e il mondo nel capitalismo, il mondo dentro il capitale - allora se ogni crisi è sempre naturale, è normale accettare come dato di fatto il rischio e la sua gestione autoritaria, quale forma di difesa della società. E vediamo allora che questo vaccino, seppur importante (io sono la prima ad essere contenta in qualche modo che le persone intorno a me stiano accedendo al vaccino, finalmente) non è tuttavia cura sociale, non è la cura di cui abbiamo discusso oggi, è emergenza.
Vado a concludere, con tutto quello che l'emergenza ha come portato di governo neoliberale, ma soprattutto anche di militarizzazione della salute. Io volevo citare una frase di Melinda Cooper di un libro "La Vita come Plusvalore", che io ho riscoperto [e] tantissimo riletto in questa fase pandemica, che dice che è proprio quando il corpo e l'ambiente diventano dei limiti da superare, su cui si può speculare, che la possibilità di realizzare una militarizzazione permanente in nome della vita non solo divenne un'opzione concreta ma divenne l'opzione correlata alla crescita. E quindi mostra tutta la perversione di un sistema che da un lato accetta che il rischio debba far parte della sua evoluzione, ma assume anche come normale di poter estremizzare qualsiasi processo in nome del fatto che ci sarà una soluzione.
Ecco per chiudere penso che questi elementi richiedano di essere analizzati, di essere messi a tema, richiedano di essere analizzati insieme agli impliciti che veicolano e che traducono nelle pratiche sociali. E in qualche modo il dibattito che abbiamo fatto oggi, il dibattito sull'ecologia politica ci permette di metterli a tema ripensando la cura fuori dal modello emergenziale e da quello della mera sopravvivenza. Perché, per dirlo proprio in due parole in modo da chiudere, va bene il diritto alla salute ma: o questo diritto é inteso come è stato fatto oggi in maniera innovativa, collegando i vari nodi che sono emersi dal dibattito, oppure restiamo schiacciati là dove esattamente il sistema ci sta schiacciando: cioè a chiedere di sopravvivere e delegando totalmente questa speranza di sopravvivenza a strutture sempre più verticali, sempre più autoritarie e sempre più settarie. E quindi invece ripensare le relazioni tra cura, salute e territorio significa connettere esperienze che mettono in discussione l'idea che la riproduzione sociale debba essere subordinata al profitto; ma ripensano anche percorsi di autonomia per quelle che secondo l'espressione felice di Stefania Barca sono chiamate le forze della riproduzione. Vedo che il mio tempo è finito, quindi dico semplicemente che oggi sono emerse delle parole secondo me importanti come solidarietà, come comunità; che sono importanti per ricordarci che, se ce la stiamo facendo ad uscire da questa crisi, non è grazie al capitalismo ma nonostante il capitalismo; che non solo non è stato efficiente nella gestione della crisi ma appunto non ha fatto niente per [uscirne].